venerdì 18 luglio 2008

Per il governo tutto è emergenza tranne che l'economia

Siamo proprio sicuri che gli elettori che hanno votato centrodestra si
aspettassero questa agenda di governo? E davvero si può credere che un Paese
che avverte ormai tutto il peso della crisi finanziaria e produttiva possa
essere rassicurato in questo modo? Perché da una parte abbiamo un ministro
dell'Economia che annuncia i venti catastrofici della grande depressione e
dall'altra un presidente del Consiglio che ci comunica che la vera emergenza
italiana è la riforma della giustizia. O meglio, una riforma che lo metta al
riparo dalla persecuzione giudiziaria. Governare è una questione di
priorità, nazionali prima che personali.

E qualsiasi ragione possa avere il cittadino Berlusconi per ritenersi
perseguitato dalla magistratura, i tempi della politica se non proprio il
rispetto per le regole dovrebbero spingerlo a maggiore prudenza nel volgere
in senso così smaccatamente personale l'esigenza di una nuova politica
giudiziaria. Perché evidentemente ci sbagliavamo a pensare che il lodo
Alfano bastasse a tranquillizzarlo. Oggi sappiamo che da settembre, cascasse
il mondo (eventualità che non è affatto da escludere, almeno per quanto
riguarda i nostri risparmi), il governo italiano sarà lanciato nell'impresa
che sta più a cuore a Berlusconi. Con buona pace di ogni più fosco scenario
economico.

In questo senso dovremmo apprezzare tutti, qualunque sia stato il nostro
voto, il ruolo che in questi giorni sta svolgendo la Lega. Vuoi per ragioni
di bottega, vuoi perché si è resa conto di rischiare proprio su questi temi
una buona fetta del suo elettorato, la formazione di Bossi ha assunto una
posizione di rigorosa difesa del programma con il cui il centrodestra si è
presentato alle urne. Che formalmente significa prima il federalismo fiscale
e solo dopo il resto. Ma che in senso più generalmente politico equivale a
porre un argine al sequestro a fini personali a cui Berlusconi ha sottoposto
l'esigenza di una seria e condivisa riforma della giustizia. Un'esigenza che
non riguarda solo la magistratura, ma l'intero funzionamento di un'azienda
che non fornisce più un prodotto all'altezza di un Paese avanzato come
dovrebbe restare l'Italia. È questione di organizzazione, costi, tempi e
produttività della giustizia. E solo in fondo alla lista è un problema di
rapporti tra politica e magistratura, che hanno subito nell'ultimo
quindicennio una torsione innaturale, ma che rischiano di restare congelati
in questa posizione ancora a lungo se l'iniziativa di Palazzo Chigi
continuerà ad essere dominata da preoccupazioni private.

Il reciproco assedio tra Berlusconi e la componente militante della
magistratura può essere spezzato già in questa legislatura, con enormi
benefici per tutto il Paese. Ma non certo grazie alla nuova offensiva
personale del Cavaliere, che rappresenta al contrario la migliore garanzia
per la tutela dello status quo. Intorno alla necessità di avviare un'ampia
riforma del funzionamento della giustizia convergono infatti le voci più
avvedute del centrosinistra. Voci che fanno fatica a farsi ascoltare, mentre
una parte del Pd è nuovamente tentata dall'abbaglio della «questione
morale», ma che nondimeno offrono una via d'uscita a tutta la politica
italiana. Leggiamo ad esempio che Luciano Violante - che è fuori dal
Parlamento ma che un qualche ruolo continua ad avere nell'orientare la
propria parte politica su questi temi - insiste da tempo sull'urgenza di
«una scelta seria e innovativa di politica giudiziaria» che «aumenti la
credibilità e la competitività» di tutto il settore (come ha affermato ieri
al Corriere della Sera).

«Non mi fermerà nessuno», avverte Berlusconi. E invece, Presidente, farebbe
meglio a fermarsi. Provando a rassicurare un Paese spaventato da ben altre
emergenze, ascoltando la Lega e coloro che anche nel centrosinistra hanno a
cuore una riforma della giustizia che non sia solo la soluzione ai suoi
problemi personali.